Due occhi diabolici

romeroQuella tra George A. Romero e Dario Argento è, fin dall’inizio, una collaborazione per molti aspetti strana, inaspettata.
È l’incontro di due straordinari talenti cinematografici che sembrano avere in comune soltanto il genere cinematografico praticato: l’horror. Per il resto le loro strade appaiono drasticamente divergenti.

Mentre Romero sembra ripercorrere, nel corso di un carriera estremamente monolitica, un’unica ossessione di fondo che trova proprio nella saga dei morti viventi (La notte dei morti viventi, poi la pentalogia di Zombie) la sua più completa espressione, l’opera del regista italiano sembra essere più sfaccettata e multiforme, quasi che il regista fosse alla ricerca di una forma d’espressione non ancora realmente trovata.

Dal thriller italiano (sulle orme del grande Mario Bava), all’horror in senso stretto, al fantastico tout court, fino a giungere al remake di un classico (è il caso del non sempre riuscito Il fantasma dell’opera), quella di Argento è una vera e propria ricognizione in tutte le possibili varianti di un genere. In una ricerca prevalentemente stilistica e formale che pare volersi adattare a tutte le circostanze. Poco importano le dinamiche del racconto, la coerenza narrativa o la specificità del soggetto del film, quella che conta più di tutte è, in fondo, la pura e semplice messa in scena, la capacità di trasformare in immagini, suoni e colori un’idea.
Quella di Dario Argento è, in effetti, una sorta di pornografia del delitto, nel senso che (come nei film pornografici che sono, in ultimo una serie di fantasiosi amplessi uniti da un debolissimo filo narrativo) quella che conta non è la storia, ma il susseguirsi dei delitti inanellati l’uno all’altro in un crescendo spesso di impressionante efficacia.
La morte, in sé, non viene vissuta e restituita allo spettatore come evento, ma come emozione. Il delitto va prolungato in una lunga agonia per lo stesso motivo per cui un orgasmo va il più possibile protratto in un film porno.
Quella che conta è la costruzione visiva dell’omicidio (nei tagli di luci e colori ai limiti del surrealismo) e la sua strutturazione ritmica -di qui il parallelo costante con la musica, vedi i delitti impaginati a tempo di musica in Opera e in Inferno (e Verdi sembra essere un veicolo privilegiato a favorire le migliori mise en scene delittuose del suo cinema anche se il Cajokowskij di Non ho sonno sembra non aver molto da invidiare agli esempi su citati).
Ma di qui anche quell’incoerenza narrativa che spesso a ragione viene rimproverata ai suoi film. Insomma un talento puramente visivo quello del regista italiano che mal sopporta un’analisi contenutistica o tematica.

Tutto il contrario di Romero per cui la singola immagine ha valore solo se si cala in un contesto fortemente connotato in cui possa assumere un preciso significato.
Non che Argento non cerchi nei suoi film di inviare precisi messaggi al suo pubblico, ma essi sono sempre e comunque subordinati alla dimensione figurativa dei suoi progetti.
Da qui l’interesse sociale e, talvolta, politico che traspare continuamente dai film del regista americano e che è quasi completamente assente dalle opere di quello italiano.
La stessa saga di Zombie è una non troppo celata critica al consumismo (Dawn of the dead, il primo della serie, in particolare, si svolge prevalentemente in un centro commerciale), e successivamente alle discriminazioni razziali e all’omologazione culturale (e del resto il protagonista dell’ultimo film Bruiser è, per stessa franca ammissione del regista un individuo che perduta letteralmente la faccia non può più riconoscersi come parte integrante di un qualsiasi gruppo sociale) fino ad arrivare all’accesa critica del consumismo delle immagini in Diary of the dead.
Il film per Romero non è, né può ridursi, al susseguirsi di una serie di delitti, ma deve essere il susseguirsi di una serie di metafore che vadano dritte al cuore delle contraddizioni dell’Uomo Contemporaneo.

Due registi, insomma, che, pur nella stima reciproca del proprio lavoro, si muovono in due versanti per certi aspetti opposti.
Argento ricalca le orme inconsce del sogno: è il rimosso del subcosciente il costante centro della sua indagine, rimosso che viene restituito allo spettatore nella sua forma più grezza, ma anche più affascinante. Romero riprende e razionalizza quello stesso rimosso, ma la trasforma in consapevoli funzioni narrative e metaforiche.

Dawn of the dead che segna l’inizio della loro collaborazione (Romero è il regista, mentre Argento produce e distribuisce modificando tra l’altro il finale del film per i paesi non anglofoni) è anche il punto in cui le contraddizioni tra i due si fanno feconde e portatrici di senso. Troppo effettisitico per essere un film di Romero, troppo geometrico e significante per essere un film di Argento, questo primo capitolo della serie di Zombie parrebbe aver indicato a entrambi una direzione per portare finalmente a perfezione il proprio stile e le proprie ossessioni.