Il pianeta in mare

Un pianeta in mare: Marghera.
Nato dal bisogno dell’industria, è un immenso lembo di terra strappato alle onde dalla fatica dell’uomo. Ha un ventre d’acciaio e la salute malferma di una palude che ristagna, placida, sotto il sole inclemente del Tempo.
Quasi ti sorprende che esista ancora, con le sue dimensioni elefantiache, resistendo alle crisi economiche e ai cambiamenti del progresso.
Meno ti sorprende vederla affollata di fauci meccaniche che, come dinosauri d’altri tempi, divorano il metallo, facendone brani di memoria ostinata.

Andrea Segre si è immerso nella realtà di Marghera per quasi due anni per realizzare Il pianeta in mare.
Ha imbracciato la sua telecamera, come un tempo facevano gli etnomusicologi con i registratori, e ha cominciato, prima di tutto, a riprendere la musica del posto.
Una musica arcana, fatta di metallo, certo, ma anche di colori, di sfumature, di ricordi che affiorano nel corpo dell’immagine e si concretizzano, inattesi, in folgoranti spezzoni di materiale di repertorio.
Una musica che è quella delle parlate delle migliaia di lavoratori che affollano le fabbriche, che riempiono i cantieri navali, che scendono fin nelle viscere oscure degli altiforni. Se ne contano sessanta, di lingue parlate da lavoratori che vengono anche da molto lontano. E si impastano magicamente con i dialetti più vari in una babele di racconti in cui al centro resta sempre l’Uomo e la dignità assoluta del lavoro.
Una musica segreta che il regista amalgama, ricompone, calibra in cerca delle campate vaste della grande sinfonia fatta di piccole cose.

Questa, in fondo, la magia di Il pianeta in mare, un affresco potente e bello di una realtà, in fondo, un poco rimossa, di cui poco si conosce.
La magia di un caleidoscopio che gira controluce, ricomponendo a ogni passo pezzetti di vetro colorato che sono le esistenze di persone di cui spesso non sappiamo nemmeno il nome, ma che lasciano, nel corpo della narrazione collettiva di un luogo, il pezzo importante della loro storia, del loro piccolo sorriso, del loro esserci stati, sia pure solo per un momento, come parti integranti di un insieme.

Segre lavora col proprio materiale con la sapienza del compositore e non del didatta. Non spiega, mostra. E, nel mostrare, dimostra.
Ci mette di fronte al grande rimosso della sinistra italiana: quella classe lavoratrice di cui dovrebbe essere espressione e che ha invece dimenticato per strada. E – nel metterne al centro l’immensa carica umana, fatta di sogni, desideri, fatica, amore, dolore – trasforma il gesto dell’artista in proclama politico.


Il pianeta in mare
 diventa così uno dei documentari più belli di Segre, un’opera complessa e articolata su più livelli che ci mette di fronte a persone vere che per un momento ci dicono chi sono. Sono loro, in fondo, a fare Marghera perché un posto non è solo fatto di strade e piazze, ma di persone e volti, di parole e sapori, di odori e rumori.Eppure, Segre è prima di tutto uomo di cinema. E se c’è una cosa che lascia stupefatti nella visione di Il pianeta in mare, questa è proprio la sapienza compositiva che sta alla base dell’intera struttura narrativa e che fa sì che ogni singolo fotogramma acquisti un senso nella dinamica complessiva, capace di includere anche il materiale di repertorio senza snaturarlo e al tempo stesso facendolo proprio.
Sicché alla fine, per sommo paradosso, le sequenze d’archivio si sposano così tanto bene col resto del film che quasi viene il dubbio che non le abbia girate lo stesso regista, fingendone un’origine altra e più lontana.

E a fine film, queste persone ci restano care, come un amico che si vorrebbe incontrare di nuovo. Perché, anche se non le abbiamo mai spiate nella loro intimità più vera (e lo sguardo di Segre non è solo politico, ma anche ricco di etica), hanno saputo comunque accompagnarci nella scoperta di un posto e, un poco, anche di noi stessi.


(Il pianeta in mare); Regia: Andrea Segre; scritto da: Andrea Segre, Gianfranco Bettin; fotografia: Matteo Calore; montaggio: Chiara Russo; musica: Sergio Marchesini; produzione: ZaLab Film con Rai Cinema; origine: Italia, 2019; durata: 93’
Fonte: Close-up