L’insostenibile pesantezza del divenire. Cronenberg e la musica

La musica, a differenza del rumore bruto, ha un’organizzazione architettonica che, spesso, raggiunge livelli di complessità paragonabili alla matematica pura. Ma essa è, prima di tutto, un organismo in perpetuo divenire le cui trasformazioni si proiettano nel tempo dell’esecuzione e nello spazio del suono e della sua diffusione.
Arte del tempo e del cambiamento, la musica non poteva non attirare un regista come Cronenberg che del tempo e, più ancora, della mutazione ha fatto il suo centro poetico.
Evoluzione (o involuzione), degenerazione (o rigenerazione), in ogni caso mutazione controllata (o incontrollabile) sono le ossessioni di un’opera, come quella del nostro regista, che, spalancando le porte delle nostre esistenze agli orrori di un mondo presente/futuro, ci mette di fronte alle paure inconsce verso un universo temuto e desiderato ad un tempo. E la musica è evoluzione ed involuzione, è degenerazione e mutazione o permutazione di temi, ritmi, impasti strumentali. E come all’interno di un edificio sonoro possono, di colpo, emergere cellule tematiche che, moltiplicandosi in maniera incontrollata, fanno franare l’intera struttura (allo stesso modo di un cancro), così in quell’edificio di carne che per Cronenberg è il corpo, le cellule possono iniziare la loro ridda incontrollata di proliferazione e cancerizzazione.
È così il destino di ogni film di questo enigmatico regista quello di incontrare una musica che non si limiti a sovraccaricare di angosce ambienti e situazioni, ma ne ricalchi le strutture, le rigide e fredde geometrie narrative. E l’incontro con Howard Shore è di quelli che sembrano apparecchiati da un destino greenawainiano.
Compositore eclettico, nel suo moderato sperimentalismo, Shore si adatta perfettamente al gusto entomologico del suo regista. È un autore alla costante ricerca di impasti timbrici sorprendenti, di soluzioni sonore che vanno dal suono brunito, appesantito dal timbro greve degli ottoni e perennemente ancorato ai bassi, come dal peso soffocante della carne, di La mosca fino ai glissando, strappati in sopracuto di Brood, la covata malefica; per tacere degli improvvisi abbandoni melodici che non contraddicono, anzi esasperano, i terribili scatenamenti ritmico/percussivi di non poche sequenze.
In tutto questo è la pratica della variazione su tema, probabilmente, ad essere l’artificio musicale più interessante del suo cinema. Più interessante perché più consono allo spirito e al contenuto delle varie pellicole. Si pensi a come in Scanners sia il cantus planus del Dies Irae medioevale a fornire il materiale tematico principale della colonna sonora. Il terribile motto di otto note discendenti (fa-mi-fa-re-mi-do-re-re) esplode, infatti, a piena orchestra fin dall’inizio dei titoli di testa per accompagnare, poi, con incedere fatale l’intera apocalittica vicenda sottolineandone i continui riferimenti cristologici (comuni, del resto anche ad altre pellicole del regista come Videodrome) pur in una visione salvifica rovesciata.
Altrove, come nella splendida sequenza titoli di La mosca in cui la musica sposa in maniera invidiabile i cambiamenti cromatici dell’immagine (particelle di un tessuto al microscopio) attraverso mutamenti sia tonali che dinamici che nello spessore e nelle combinazioni orchestrali, è la sincronia suono/immagine a farsi interessante.
Ma è quando il discorso comincia ad abbandonare la sfera deperibile del corpo e comincia ad infiltrarsi nella psicologia e nella mente dei vari personaggi cronenberghiani (in un passaggio sempre ambiguo dal momento che il pensiero ha, sin dai tempi di Brood, l’abitudine a farsi carne) che la musica di Howard Shore trova maggiormente la forza per lanciarsi in sperimentazioni spesso di straordinaria portata. Si pensi al caso di un film come Crash dove la tavolozza strumentale messa in campo dal compositore si imposta secondo una logica cameristica lontana anni luce dagli sfarzi sinfonici di opere come Il Signore degli anelli e dove alla base immutabile degli archi si aggiungono appena sei chitarre elettriche, tre arpe, tre corni e due gruppi percussivi. Ne deriva una composizione minimale in cui pochissimo spazio viene dato ai fiati e moltissimo al pizzicato delle chitarre. Anche il processo compositivo segue percorsi matematici inauditi dal momento che almeno un quarto dell’intero score è rielaborazione elettronica e remixaggio di temi realizzato direttamente in post produzione della musica stessa. Processi cameristici ritornano anche in Spider dove la musica è totalmente affidata ad una formazione minimale centrata sul quartetto d’archi (esecutori I Kronos quartet) cui si aggiungono pianoforte, clarinetto tromba e di nuovo arpa. Se la formazione messa in campo per Spider è più classica rispetto a quella di Crash (siamo, in fondo, di fronte ad un ottetto), più intrigante è, invece, il percorso compositivo che abbandona quasi completamente ogni forma di tematismo per concentrarsi sull’elaborazione di mere cellule musicali lasciate macinare in una sorta di reazione chimico/auditiva. Uno score di difficile ascolto (forse il più arduo di tutta la produzione del compositore almeno per quello che attiene le sue collaborazioni con Cronenberg), ma la cui rispondenza all’immagine del film sembra quasi insuperata.
Su un altro versante sono invece da collocare i casi di M Butterfly e di A history of violence dove la musica abbandona totalmente i lidi sperimentali per incanalarsi in un solco più legato ad una tradizione di stampo quasi ottocentesco. Nel primo caso la scelta di una musica di stampo sinfonico orchestrale palesemente classico è direttamente legata al bisogno di trovare un preciso correlativo sonoro ad una vicenda ambientata nel mondo del melodramma (di qui anche il potente lirismo di molti momenti). Nel secondo, invece, siamo di fronte alla risposta ad un’esigenza di carattere prettamente atmosferico, al bisogno di creare una realtà musicale piana che corrisponda al mondo convenzionale di provincia che ospita un racconto che, seppur denso di fascinose riflessioni, sembra essere il più convenzionale e normalizzato di tutta la produzione cronenberghiana. Un percorso strano, questo cui stiamo assistendo, che sembra spingere l’opera del regista verso lidi più popolari proprio nel momento in cui la cultura pop sta finalmente cominciando a digerire le illuminazioni fatali del regista canadese. Basti pensare al solo fatto che un gruppo come gli Sculptured stia proprio ultimando, mentre scriviamo, un album completamente ispirato alle pellicole di Cronenberg. Strani i flussi e riflussi dell’arte! Sulla colonna sonora di A history of violence e sull’album degli Sculptured, comunque, ritorneremo a tempo debito.