Silenzio Nicolino!

silenzioScrivere la recensione di uno spettacolo per ragazzi dovrebbe sempre obbligare il critico ad una vera e propria rivoluzione copernicana dello sguardo.

Dovrebbe, il commentatore, lasciare la poltrona delle comode abitudini per mettersi, spalle al palcoscenico, di fronte al pubblico in sala. E, con lo sguardo pronto a stupirsi, dovrebbe andarsi a cercare lo spettacolo dritto dritto negli occhi dei bambini, nelle loro risate, nelle loro domande, nella loro voglia di partecipare.

Questo non perché il bambino debba essere il vero e unico giudice degli spettacoli che sono stati pensati per lui (una scusa, questa, che fa troppo comodo a quelle compagnie di cui si scrive male e che si nascondono nell’applauso che sempre più spesso si concede per distratta abitudine), ma perché il vero senso dello spettacolo non sta sul palco, ma in mezzo al pubblico.
Guardare solo il palcoscenico è, in fondo, un «ostinato ostinarsi» a restare nella caverna di Platone dove poter continuare a scambiare ombre per realtà e lucciole per lanterne.

Del resto per i bambini la quarta parete è un’astrazione incerta visto che non c’è distanza a separare la scena dal mondo, il falso dal vero e il gioco dall’essere. Per loro tutto è mischiato in un’allegra sinfonia di colori ad acqua che si asciugano troppo rapidamente al sole secco del crescere e anche la dicotomia tra «io» e «tu» è più grammaticale che esperenziale.
Perché stupirsi, allora, che lo spettacolo non sia né qui e né lì, ma in questo spazio di mezzo tra veglia e sogno?

In Silenzio Nicolino! quest’incertezza metodologica dovrebbe guidare la mano e l’occhio del commentatore più che in tante altre occasioni. Lo spettacolo, infatti, prende corpo in uno spazio così ambiguo e liminale che si ha quasi l’impressione che, più che di stare a teatro a vedere uno spettacolo si stia piuttosto in campagna a cacciar farfalle con un retino dalle maglie fatalmente troppo larghe.

Certo c’è una baracca al centro della scena a dirci che proprio lì è dove dovrebbe prendere corpo la favola, ma quello spazio è troppo stretto per la tanta voglia di sogno che si portano appresso gli attori e fin da subito la magia sguscia via dalla solida struttura di legno e stoffa per insinuarsi sul palcoscenico e oltre, in mezzo a noi che guardiamo e ridiamo.
Così, piano piano, il racconto prende corpo in uno spazio tra il teatro e il teatro nel teatro con gli attori che parlano coi pupazzi e con i pupazzi che parlano con il pubblico in una gioiosa confusione di qui e allora in cui la storia comincia nel presente del teatro e poi si slabbra nel sempre del racconto che è costantemente lo stesso ad ogni replica.

Siamo nella stanzetta di Nicolino, ma, come spettatori, non la vediamo se prima non la cerchiamo nello sguardo di ogni bambino che, di fronte allo spettacolo, è alla sua che pensa ed è la sua che vede. In questa stanza, di tutti e di nessuno, Nicolino vorrebbe fare i suoi esercizi di musica, vorrebbe imparare a suonare la chitarra. Come fa sempre, malgrado le lamentele della mamma e le proteste dei vicini. Ed è proprio in questa prima notazione che si coglie appieno il senso di un’operazione così bambina da essere incredibilmente adulta.

Il suono è, infatti, per ogni bambino, non solo il primo gioco, ma soprattutto l’espressione del suo essere attraverso il rumore. Di qui il bisogno per ogni piccolo di giochi rumorosi e di qui il bisogno di suonare. Se l’ascolto ci riporta alla condizione prenatale quando si era solo orecchie nel grembo materno, la musica ci riporta al momento della consapevolezza di un «io» che, quando ha fame, piange.

Il rumore, la musica, sono il segno di un orientamento non più egocentrato, ma eterorientato.
Sicché quando nel racconto, piano e semplice che di più era impossibile, un diavolaccio cattivo priva Nicolino del suo strumento musicale, è al terrore del silenzio che si riconduce il piccolo spettatore in sala, all’ansia, inespressa, del non potersi dire, del non poter essere nel mondo in una posizione attiva.

Silenzio Nicolino! gioca sin dal titolo con questa dimensione tutta infantile della musica e del silenzio. La prima, espressione di una presa di coscienza, passa attraverso il teatro ed esce fuori la baracca imponendo un dialogo con gli attori presenti sul palco e con il pubblico che, seduto, ha un suo spazio per agire. Il secondo resta legato alla componente del maligno, è l’ordine di non essere. E pochi adulti si rendono conto, nell’ordinare ai bambini il silenzio, di quale contraddizione sia per loro l’obbedienza e il rimanere se stessi.

Il gioco dello spettacolo sta, quindi, nel superare l’imposizione al silenzio e al non essere, attraverso lo sberleffo e la maschera. È Pulcinella, infatti, a risolvere la situazione grazie all’aiuto dei bambini del pubblico che, somma provocazione, passa attraverso il rumore delle indicazioni gridate ai pupazzi. Indicazioni che permettono a Nicolino di tornare ad «essere» e, per catarsi, permettono agli spettatori di esistere non più come pubblico, ma come somma di individui.

In Silenzio Nicolino! gli attori sono proprio come due mani che corrono sulla tastiera di un pianoforte. Tra arpeggi, incroci, salti di ottave compongono un meccanismo in cui il virtuosismo è piegato a raccontare il massimo della semplicità. E la semplicità è da sempre il traguardo più difficile.

 

SILENZIO NICOLINO!
con Anna Cisternino e Daniele Guaragna