Spider-Man: Homecoming

Homecoming: si ritorna a casa.
Un ritorno a casa prima di tutto dall’annoso punto di vista delle Royalties. Dichiaratamente. Sfacciatamente. In fondo, ed è già una novità, abbastanza sinceramente.
Un accordo tra Sony e Marvel permette, infatti, al personaggio di Spiderman di tornare da papà Stan Lee e di integrarsi, da par suo, in quel complesso apparato di costruzioni narrative concentriche come le vecchie matrioske che è il Marvel Cinematic Universe.

Un ritorno non troppo all’insegna della nostalgia, a pensarci su un momento, perché se è vero che ci accoglie in sala il vecchio motivo della sigla dei cartoni animati che la televisione ci propinava anni or sono (qui in pompa magna e con l’orchestra delle grandi occasioni), è anche vero che molto si cerca di rinnovare per rendere il fumetto più adatto ai gusti di uno spettatore ormai avvezzo alle ultime meraviglie del Comic Book Movie.
Ecco, allora, che il giovane Peter Parker perde per strada la pensosità che aveva nell’ancora insuperata (diciamolo!) trilogia di Raimi e il nervosismo del dimenticabilissimo (ammettiamolo…) dittico di Webb per tornare ad essere, con maggior convinzione, quello che in fondo era sempre stato sulla carta: un simpatico quindicenne, prossimo ai sedici, qui con più voglia di divertirsi che trauma sulle spalle.
Ed ecco allora che, in pieno bisogno di riammodernamento, ma senza dimenticare, appunto, la strada di casa, la zia May cessa di essere una vulnerabile vecchietta per diventare una figura vagamente post sessantottina, che la scuola torna ad essere il centro della vita del personaggio e che la città perde per strada un poco della metropoli (alla Superman) per diventare più a misura di quartiere (alla Smallville).

Tutto nel nuovo Spiderman, muove verso la consapevole riduzione degli orizzonti del personaggio: un piccolo appartamento, una piccola strada, una piccola scuola che nella migliore delle ipotesi sogna la gloria del campionato di Decathlon.
Sono piccole anche le emozioni: contro le contorte storie d’amore dei film precedenti in cui forte si misura l’urto tra il bisogno d’amore del povero Peter e le urgenze ideali della maschera Spiderman, qui il tutto si riduce alle cotte adolescenziali che durano lo spazio di un sorriso, che si consumano potenti e finiscono, dopo la fiammata, in una spira di fumo che gentile sale verso l’alto con il suo vago odor di zolfo.

Del resto Peter è un quindicenne e come quindicenne vive l’amore e i rapporti amicali (all’insegna del nerd bullizzato, ma non troppo, come succedeva senza scandalo nei film di una quarantina di anni fa), con la fatica dei suoi anni e la leggerezza di una commedia che non vuole perdersi per strada neanche un grammo di stupore.
Anche il suo rapporto con i poteri è all’insegna della leggerezza: non sono ancora un grandissimo fardello, semmai qualcosa con cui poter ancora un po’ giocare, sognando una grandezza che il ragazzo non può prendersi ancora sulle spalle come certifica, in fondo, la citazione più invisibile del film, quella del videodiario dell’inizio che ha lo stesso nervosismo da cellulare in mano del Chronicle di Josh Trank, altro film di poteri senza responsabilità.

Homecoming è un film dei tempi in cui ormai il comic book movie ha perso ogni innocenza: gli stessi personaggi che lo popolano si confrontano con un universo (il loro) popolato già di eroi che volano e danno botte da orbi a supercattivi che neanche ce li immaginiamo. Un mondo fagocitato dall’immagine, in cui anche Capitan America presta il volto ai filmini didattici da mostrare nelle scuole (in perfetta coerenza con le sue radici di personaggio nato in seno alla propaganda bellica della Seconda Guerra Mondiale). Il meccanismo del crossover in questo modo mette in bella mostra i suoi ingranaggi più luccicanti in cerca dell’ammiccamento con un pubblico complice sempre più pronto a bere tutto d’un fiato, come nelle gare dei College in cui vince chi sta in piedi fino alla fine.

In questo il film paga il pegno al bisogno di gigantografia di una Marvel che vorrebbe invaso tutto il territorio dell’immaginario ed è proprio nei punti di trasparenza, negli snodi tra il vissuto di Peter e la storia di tutti gli altri eroi che un poco il film inciampa.
Non ce ne voglia chi già grida al miracolo, ma Homecoming, film godibilissimo dall’inizio alla fine, sta in piedi non grazie al suo essere crossover (in genere segno di una perdita di fantasia nei confronti di un personaggio già troppo usurato), ma malgrado ciò.
Se miracolo c’è in Homecoming esso non è nella sceneggiatura cui hanno messo mano in sei e che assesta un paio di colpi da manuale, ma funziona più nei dettagli che non nell’ampia campata narrativa, né nel bisogno di riportare il personaggio alla sua dimensione più teen in un film che annoierà, nella sua ricercata complessità e lunghezza, il pubblico più infantile.
Se un miracolo c’è, piuttosto, questo miracolo ha un nome ed è Tom Holland. È sicuramente lui l’artefice dell’80% della riuscita di un film altrimenti pregevole, ma sicuramente più dimenticabile.
Un interprete, ne siamo certi, di cui si parlerà ancora molto e non solo per i blockbuster più fracassoni.


(Spider-Man: Homecoming); Regia: Jon Watts; sceneggiatura: Jonathan Goldstein, John Francis Daley, Jon Watts, Christopher Ford, Chris McKenna, Erik Sommers; fotografia: Salvatore Totino; montaggio: Dan Lebental, Debbie Berman; effetti speciali: Industrial Light & Magic, Digital Domain, Gentle Giant Studios, Iloura, Lidar Guys, Luma Pictures, Method Studios, Sony Pictures Imageworks, Southbay Motion Picture Technologies; musica: Michael Giacchino; interpreti: Tom Holland (Peter Parker), Michael Keaton (Adrian Toomes), Jon Favreau (Happy Hogan), Zendaya (Michelle Jones), Donald Glover (Aaron Davis), Tyne Daly (Ann-Marie Hoag), Marisa Tomei (May Parker), Robert Downey Jr. (Tony Stark); produzione: Columbia Pictures, Marvel Studios, Pascal Pictures; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: USA, 2017; durata: 133’