Tra cielo e terra

Il serbatoio mitico dal quale maggiormente sembra attingere Davide Camparsi per i suoi racconti è l’infanzia.
Non certo quella zuccherosa dei film Disney, né quella fitta d’ombre del fanciullino pascoliano, ma quella intravista da certa psicanalisi, quella studiata dalle moderne scienze dell’apprendimento che hanno ben chiaro che la differenza tra i primi anni e l’età adulta sta tutta negli strumenti interpretativi con cui si leggono le contraddizioni del reale.
Si parla, insomma, di un’età incantata, dominata da una concezione ancora animistica del mondo, capace di convivere con l’idea che cose e animali abbiano una personalità e che, più che possedere un linguaggio proprio, serbino nascosta la concreta possibilità di confrontarsi con noi usando il nostro stesso idioma e provando, sul proprio pelo, le stesse emozioni che quel linguaggio veicola e governa. Un periodo della vita in cui l’idea che un oggetto continua a esistere, anche quando esce dal nostro campo visivo, è ancora cosa fresca e ci lascia nell’incertezza che non tutte le cose abbiano concretezza materica e che non tutte le idee rimandino necessariamente a fatti. Un periodo in cui l’astrazione è ancora cosa granulosa, incerta, figurarsi la metafora che rimanda ad altri livelli di significazione. Un tempo in cui è normale pensare che, oltre la nostra possibilità di vedere, possano esserci interi mondi e che basti appena aprire una porta per entrare nell’altrove.

In fondo, è questo proprio il periodo giusto per narrare, per raccontare, per perdersi nell’infinita possibilità di storie che ci liberino dagli opprimenti pesi del pensiero adulto e ci lascino nella leggerezza ebbra di un librarci in un oltre che può avere l’incanto del sogno, ma anche i toni cupi e spaventosi dell’incubo.
La peculiarità dell’infanzia è la conditio sine qua non del narrare di Camparsi. È il punto di partenza necessario per superare le colonne d’Ercole del prosaico quotidiano e lasciarsi sedurre del canto di sirena della fantasia che spinge e sospinge verso nuove, impreviste possibilità. Ma è anche, per sua natura, momento transeunte, destinato a infrangersi verso la catastrofe, verso quel passaggio irreversibile in cui gli animali smettono di parlare e le porte di aprirsi su scorci di universo. Questo confrontarsi con l’instabilità del periodo infantile riempie molte pagine dei racconti di Tra cielo e terra di un’inesausta nostalgia, di una nota di bluastra malinconia che è quella che si accompagna sempre all’impressione della fine di un mondo, di un tempo, di un’avventura intensa.

Il confrontarsi col compromesso dell’età adulta sbatte, allora, con ali di falena impazzita, contro il disperato sentimento della fine di un’eternità. Quella dell’amicizia, ad esempio, mai più così vera e pregna d’infinito come quando si è bambini, anche quando deve confrontarsi con il sentimento di fine di un litigio. E il narratore tocca i suoi momenti più felici proprio quando si confronta con quel rapporto amicale che in qualche modo si è spezzato e che deve essere recuperato oltre l’abisso della morte (e in Non di solo pane scende addirittura Dio, su una magnifica astronave, a rinnovare in senso addirittura ironico la funzione mai così compiuta dell’antico deus ex machina) oppure oltre gli scogli dei primi turbamenti sessuali che, infidi, tradiscono anche le amicizie più profondamente radicate, quando si affacciano a rivendicare un crescere che non è mai esente da contraddizioni.

Qui, in questi momenti di sospesa magia, coadiuvato da un sicuro senso stilistico e una penna decisamente felice nel suo stare a cavallo tra rimpianto ed ironia, Camparsi rivela le sue doti migliori che vengono riconformate anche nei racconti più eccentrici, rispetto al tema, ma che sempre confermano un’attenzione sull’infanzia intesa come inizio, come primavera di ogni storia

possibile. Così c’è sentimento d’infanzia anche nel racconto di due fidanzatini che rubano da un rigattiere una macchina fotografica che cattura immagini del futuro e sono, con questo obbligati a scendere a patti con l’idea di una fine dell’eternità quando il racconto è ancora appena un bozzolo pronto a svolgersi alla luce.
Come si parla di infanzia quando si sfiora l’idea che il caro estinto non torni più, se non un’ultima volta, a un’ultima cena in cui tutto deve andare a modo suo, nel silenzio scontroso che prepara al più impenetrabile silenzio dell’irreversibile fine del legame.
Come pure, infine, si resta nell’infanzia quando si rilegge Cappuccetto Rosso dal punto di vista del lupo cattivo, secondo una vocazione post-moderna molto cara al nuovo millennio, ma qui forse meno convincente rispetto ad altre pagine di Camparsi.

Nel complesso, quindi, Tra cielo e terra si rivela lettura più che coinvolgente, con toni quasi bradburyani e conferma l’importanza di un autore che cavalca i generi non per mera dimostrazione di bravura ma perché mosso dall’esigenza di ritrovare le radici più vere del narrare, quelle che ancora non hanno dato i rami degli steccati che dividono, spesso malamente, l’horr

or dal fantasy, la fantascienza del giallo.
Un libro, insomma, che vale la pena leggere da cima a fondo
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Autore: Davide Camparsi

TitoloTra cielo e terra
Editore: Associazione RiLL Riflessi di Luce Lunare, Wild Boar
Collana: Memorie dal futuro
Dati: 140 pagine, brossurato
Anno: 2017
Prezzo: 10,00 €, eBook
Isbn: 8895186591
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