L’ultimo piano

L’ultimo piano è quello di un palazzone dell’estrema periferia romana: un edificio che si stenta a credere abbia visto anni migliori e che sfida il cielo e il grigio paesaggio circostante come un relitto pasoliniano d’altri tempi. Ha, anzi, la stessa consistenza materica e lo stesso peso greve di un frammento d’arco d’acquedotto romano, mentre i graffiti che stanno nelle stanze si portano il ricordo di una contestazione che si è scolorita col tempo.
Non dicono quasi più di rock, di alcool, di droga e sesso come forse facevano qualche anno fa. Per chi, anzi, volesse percepire qualche stralcio dell’atmosfera di vecchio ribellismo, bisogna, piuttosto, lasciare il piano dell’immagine (e quindi della scenografia, restituita con efficacie realismo fotografico post digitale) e addentrarsi in quello del suono: nel loop del ripetersi di vecchie registrazioni. Un meccanismo incastrato in cui la ripetizione obbligata segna una sconfitta esistenziale.
Sono i nastri che conserva Aurelio, musicista di un gruppo rock sciolto da anni, figure ingombranti di una coazione a ripetere e un’incapacità ad andare avanti che è anche un andar fuori.

Aurelio, il proprietario dell’ultimo piano che oltre a titolo è anche spazio concentrazionario del racconto, infatti segna il suo restare bloccato nel suo passato, vera prigione della mente, nella doppia pulsione al continuo riavvolgimento dei vecchi nastri e al suo rinchiudersi in casa, incapace anche solo di ficcar lo sguardo oltre la porta affogata nella luce di un fuori che, però, a guardarlo attraverso gli occhi altri dei coinquilini non sembra essere meglio.

Non è meglio per Mattia, rider di consegne a domicilio che vede la sua massima realizzazione esistenziale nell’appagare i desideri di una cliente, una piacente architetto che sembra avere nei suoi confronti moti di genuino affetto salvo poi escluderlo oltre la porta quando ha in casa i figli piccoli. Non è meglio per Diana che sta all’università per far contento il padre, ma dentro soffre per un destino che non può scegliersi e annega la sua frustrazione nell’ansia dello studente insicuro. Non è meglio neanche per Flora, madre troppo presto di un bambino con cui non ha saputo costruire un rapporto e se lo vede recapitato a casa come un pacco perché il padre ha da fare per tre settimane. _Tre prigioni anche le loro, in fondo, bloccate nella stessa coazione a ripetere e costrette all’interno di una società, quella italiana, che non sembra avere un posto per loro, se non quello dello sfruttamento marginale e marginalizzante. Proprio per questo, presto il fuori diventa estensione disperata del dentro, mentre la macchina da presa, messa nelle mani collettive di nove registi che chiudono con questo film il corso dell’Accademia di Cinema Gian Maria Volontè, si affanna dietro ai personaggi.

Spulciando in giro si legge spesso il nome di Ken Loach per spiegare l’originalità dell’approccio di questo collettivo, capitano da Daniele Vicari. Un nome citato un po’ a sproposito, a parere di chi scrive, anche perché la componente politica che spesso orienta sino a soffocarle le pellicole del maestro inglese, cede qui il passo a uno sguardo più sincero e meno ideologizzato.
Si ha piuttosto l’impressione che gli autori abbiano messo al centro della loro indagine i personaggi, pur colti come espressione sociale, e li abbiano poi lasciati liberi di agire all’interno di una narrazione lineare ma episodica, in cui una certa vocazione bozzettistica (intesa in senso neorealista) cede poi il passo alla scoperta inaspettata di un vero che si affaccia tra le maglie del girato, inaspettata illuminazione epifanica.

Complice del piccolo miracolo sta una scelta di cast che sfiora il sublime e che dà all’operazione di pancia oltre che di testa una credibilità e una profondità che non siamo tanto abituati a vedere nel cinema mainstream.
E anche se il finale della porta socchiusa sembra aprire il destino dei personaggi a un barlume di speranza, ci ha pensato la storia recente a dare al tutto un respiro improvvisamente saturnino: perché quella luce che alla fine sfonda le pareti sino a entrare nel chiuso dell’appartamento, prelude a un fuori che i giorni recenti del Covid hanno reso spaventoso. E a guardare il sofferto annaspare di questa società malata sin nel midollo (nessuna tutela per i lavoratori, la scuola completamente slegata dalla realtà, la famiglia diventata organismo totalmente disfunzionale) ci si rende conto di come l’Italia fosse profondamente malata da ben prima dell’arrivo del coronavirus.

(L’ultimo piano); Regia: Giulia Cacchioni, Marcello Caporiccio, Egidio Alessandro Carchedi, Francesco Di Nuzzo, Francesco Fulvio Ferrari, Luca Iacoella, Giulia Lapenna, Giansalvo Pinocchio, Sabrina Podda; sceneggiatura: Fatima Corinna Bernardi, Flavia Bruscia, Sofia Cocumazzo, Giacomo La Porta, Francesco Logrippo, Marco Minciarelli, Giorgio Maria Nicolai, Nimai Andrea Serrao; interpreti: : Francesco Acquaroli (Aurelio), Simone Liberati (Mattia), Yuliia Sobol (Diana), Marilena Annibali (Flora), Francesco Tiburzi (Adriano), Aglaia Mora (Barbara), Andrey Maslenkin (Nicola), Astrid Meloni (Maestra), Paolo Giovannucci (Professore); supervisione: Daniele Vicari; origine: Italia, 2019; durata: 87’